Settant'anni fa, la mattina del 27 gennaio 1945, la 60ª Armata del primo fronte ucraino dell'esercito sovietico giunse nella cittadina polacca di Oswieçim. Nel primo pomeriggio le truppe sovietiche, comandate dal maresciallo Ivan Konev, abbatterono i cancelli del campo di sterminio Auschwitz e liberano i circa settemila prigionieri rimasti ancora in vita.
Nelle settimane precedenti, infatti, a partire dal 17 gennaio, decine di migliaia di reclusi erano stati evacuati attraverso le cosiddette marce della morte, le Todesmärsche, e solo il giorno che precedette la liberazione del campo, il 26 gennaio, era stato fatto esplodere l'ultimo forno crematorio.
Il campo di sterminio di Auschwitz è ormai diventato un sinonimo del genocidio degli ebrei, oltre che un luogo della memoria di incomparabile significato simbolico. Con il passare del tempo, però, stanno scomparendo i testimoni diretti della Shoah. I sopravvissuti di oggi, sono essenzialmente i bambini di allora, che riuscirono a salvarsi da quel girone infernale.
È il caso, ad esempio, dell'italiana Liliana Segre, all'epoca tredicenne, che ha descritto la sua esperienza nel «buco nero» di Auschwitz nel libro La memoria rende liberi (Milano, Rizzoli, 2014, pagine 225, 17,50 euro) e dell'ungherese Peter Lantos che venne deportato ad appena cinque anni a Bergen-Belsen e che oggi ha raccontato «il suo viaggio nell'Olocausto» in un volume intitolato Tracce di memoria (Firenze, Giunti, 2015, pagine 288, 14,90 euro). Non casualmente in entrambi i titoli compare la parola memoria. Quella della Shoah è, innanzitutto, una memoria che ha avuto una larghissima rappresentazione nel discorso pubblico occidentale — raccontata attraverso musei, opere d'arte e in una miriade di libri, il cui lavoro di scrittura, ha detto Elie Wiesel, è stato «una tomba invisibile eretta alla memoria dei morti senza sepoltura» — ma è anche una storia drammaticamente negata: la diffusione del negazionismo digitale è solo la nuova frontiera di un fenomeno scivoloso e pericoloso che ha radici profondissime nella storia europea.
Quella della Shoah è poi anche una memoria ratificata per legge — nel 1959 in Israele, nel 2005 attraverso una risoluzione dell'Onu (solo per ricordare le più importanti) — che però non è stata esente da tensioni pubbliche: basti pensare che nel gennaio del 1995, in occasione del cinquantenario della liberazione di Auschwitz, sulla stampa si parlò di una presunta «polonizzazione» della celebrazione; oggi molti giornali, invece, hanno sottolineato l'assenza del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, dalle commemorazioni ufficiali in Polonia.
Il campo di sterminio di Auschwitz è ormai diventato un sinonimo del genocidio degli ebrei, oltre che un luogo della memoria di incomparabile significato simbolico. Con il passare del tempo, però, stanno scomparendo i testimoni diretti della Shoah. I sopravvissuti di oggi, sono essenzialmente i bambini di allora, che riuscirono a salvarsi da quel girone infernale.
È il caso, ad esempio, dell'italiana Liliana Segre, all'epoca tredicenne, che ha descritto la sua esperienza nel «buco nero» di Auschwitz nel libro La memoria rende liberi (Milano, Rizzoli, 2014, pagine 225, 17,50 euro) e dell'ungherese Peter Lantos che venne deportato ad appena cinque anni a Bergen-Belsen e che oggi ha raccontato «il suo viaggio nell'Olocausto» in un volume intitolato Tracce di memoria (Firenze, Giunti, 2015, pagine 288, 14,90 euro). Non casualmente in entrambi i titoli compare la parola memoria. Quella della Shoah è, innanzitutto, una memoria che ha avuto una larghissima rappresentazione nel discorso pubblico occidentale — raccontata attraverso musei, opere d'arte e in una miriade di libri, il cui lavoro di scrittura, ha detto Elie Wiesel, è stato «una tomba invisibile eretta alla memoria dei morti senza sepoltura» — ma è anche una storia drammaticamente negata: la diffusione del negazionismo digitale è solo la nuova frontiera di un fenomeno scivoloso e pericoloso che ha radici profondissime nella storia europea.
Quella della Shoah è poi anche una memoria ratificata per legge — nel 1959 in Israele, nel 2005 attraverso una risoluzione dell'Onu (solo per ricordare le più importanti) — che però non è stata esente da tensioni pubbliche: basti pensare che nel gennaio del 1995, in occasione del cinquantenario della liberazione di Auschwitz, sulla stampa si parlò di una presunta «polonizzazione» della celebrazione; oggi molti giornali, invece, hanno sottolineato l'assenza del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, dalle commemorazioni ufficiali in Polonia.
Una memoria amplissima e contesa, dunque, che a volte, come ha denunciato Liliana Segre, è diventata perfino un «argomento di moda», un «cliché» narrativo che ha «banalizzato l'Olocausto».
di Andrea Possieri
da L'Osservatore Romano di oggi
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